Quasi Certo

Il lavoro precedente ha fissato nel progetto-giornale, numero unico, “Radio Rebelde – una migrazione senza spostamento”, una serie di riflessioni, che aprono ad interrogativi sulle questioni legate alle trasformazioni che riguardano l’identità del fare e dell’essere nell’area artistica, parallelamente alle trasformazioni del contesto sociale, politico e culturale. Uno dei punti cruciali emersi, in una promiscuità oramai effettiva dei linguaggi, è la sovrapposizione degli stessi con il rischio di una riduzione omologante.
Se la funzione dell’arte, e la sua pratica diventa il punto da ridefinire, se la questione della sua funzionalità (da intendere comunque come una condizione politica), trasforma il proprio linguaggio in relazione al momento storico -sociale, cercando non un confronto ma identificandosi in una stessa situazione culturale, l’artista deve comunque operare mantenendo inalterata la sua capacità altra di percezione del mondo, dagli schemi che codificano e controllano le attuali condizioni e forme di vita, anche al di là dei mutamenti storici, sociali e culturali in corso.

LA GENESI DELL’OPERA INCLUDE LA SUA DISTRUZIONE

- Appare evidente da qualsiasi minima ricerca storica che in maniera quasi sistematica vi è sempre stata distruzione delle opere d’arte. Opere che, se anche nell’antichità non appartenevano al concetto moderno di arte (in quanto acquisizione recente), incarnavano l’immagine nella quale una cultura si riconosce e si rappresenta.
Alle opere d’arte maggiori, quelle più celebrate, e ai luoghi in cui esse dimorano, viene assegnata, anche se indirettamente, la responsabilità di rappresentare la cultura e la civiltà di un territorio, dei popoli che lo abitano e della loro storia.

- Noi non teniamo mai in considerazione che la natura della specie umana è una natura distruttrice, sia nella volontà di annientamento sia in quella opposta che intende distruzione come modalità per far spazio a nuove misure, necessità.

- Il concetto di eternità, sapere che quanto ci circonda sopravvivrà al nostro passaggio, è un’illusione che ci distoglie dal considerare la precarietà del tutto come la vera dimensione dell’uomo.
La precarietà ci obbliga a considerare i limiti e a stabilire nuovi rapporti con le cose, è come costruire architetture con le carte da gioco dove l’obiettivo è il crollo finale, se le carte cadono subito provocano un moto di rabbia, ma più si riesce ad andare avanti più cresce l’emozione dell’attesa per ciò che sarà il crollo, più si costruisce e più grande e magnifica è la distruzione. Possiamo citare ad esempio la natura del “Pòtlach” che non è un vero e proprio dono, ma è l’accumulo di ricchezze che vengono poi donate per potersene liberare e più grandi sono le ricchezze più grande è la liberazione e l’immagine sociale acquisita; quindi sin dall’inizio la meta non è quella dell’accumulare ma del disfarsene o del distruggere.

- Ogni volta si ricomincia da zero con l’esperienza già acquisita del ricominciare.
Così sulla ciclica base di precedenti storici potremmo dire che le opere d’arte vengano create per essere distrutte, e quindi una nuova consapevolezza ci deve soccorrere.

- Quando le opere sono distrutte con violenza premeditata, la violenza è sempre diretta alla storia di un luogo, che è storia di rapporti, scambi, momenti di comunicazione, ma anche di odio e di separazione, quindi non sull’opera in sé ma su ciò che essa rappresenta, sull’opera intesa come simbolo di civiltà, cultura e storia dei popoli di un luogo.
L’elemento simbolico sembra essere il vero bersaglio, poiché l’immagine che se ne vuole leggere ha una sua filiazione con la storia in genere.
Le opere sono esposte a questo rischio sia appartengano al mondo occidentale come l’espressione più alta della sua coscienza laica, sia appartengano a culture fortemente religiose e integraliste che non riconoscono altro da sé.
Secondo questo modo di ragionare, noi occidentali, vogliamo conservare l’opera nella sua purezza preservandola dalla contaminazione del mondo, reputando le distruzioni di opere come incidenti o effetti collaterali, anche se effettivamente potremmo tracciare una storia delle distruzioni parallela alla storia delle creazioni d’arte.

-A questo punto è chiaro che le opere d’arte in questione non appartengono più al puro processo artistico e alla conseguente lettura “estetica” ma sono del mondo, non ne possono fare a meno e qualsiasi significato o simbolo si sia sovrapposto ad esse è ormai indivisibile da loro, ed è in questo divenire storico che un’opera d’arte arriva a compimento.

- Sia la storia delle generazioni precedenti che quella della nostra piccola vita è caratterizzata da un comune senso della sopravvivenza, che consiste sempre, sia dopo una guerra, una rivoluzione di qualsiasi natura o una disgrazia personale, nel ricominciare da capo.
Arriva sempre il momento cruciale in cui si azzera tutto quanto e che pone di necessità il dovere della continuazione, sapendo che ciò che costruiremo nuovamente durerà per un tempo limitato dettato dagli eventi, per poi essere distrutto nello spirito della continuazione. La sopravvivenza di un’opera non è data dalla resistenza di un materiale, ma dalla sua capacità di mantenersi stabile in un continuo stato critico del sistema culturale.

- Dobbiamo però distinguere la distruzione, rumorosa nel suo essere in atto, dal silenzio dell’abbandono che produce il male dell’indifferenza, dell’apatia, dell’accidia e dell’oblio.

- La distruzione è un arrivo, un’altezza da raggiungere, il felice apice di un momento storico o di una civiltà secolare, un merito qualitativo. La conseguenza opposta, che ci impedisce di raggiungere la vetta della distruzione, sarebbe il vivere perennemente in un vuoto di conoscenze e regole che, non potendo rinnovarsi, hanno perso il senso e il significato del loro esistere.
In effetti ogni volta che si ricomincia si riscopre un senso che si era smarrito, formalizzandolo in una nuova costruzione.

La teoria è contemporanea alla pratica come momento di scoperta nel fare, la loro contemporaneità definisce l’arte come azione, atto vivo del costruire, mentre il già costruito diventa strumento per la costruzione, informativo, di supporto e di confronto, in qualche modo diventa automaticamente meccanismo per far spazio.
L’arte quindi è presente solo nell’atto vivo del processo artistico, fino al raggiungimento di una forma, quando diviene opera appartiene alla secolarizzazione del mondo, alla sua storia, alla sua violenza.


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