Intervista alla regista Elisabetta Valgiusti, dell’Associazione Salva i Monasteri

Intervista a Elisabetta Valgiusti, dell’associazione “SALVA I MONASTERI”, regista e autrice di due documentari girati in Kosovo e in Iraq.

OsservatorioinOpera - Come nasce SALVA I MONASTERI e in base a quali esigenze?

ELISABETTA VALGIUSTI - “Salva i Monasteri” è nata come un’iniziativa spontanea dopo gli incidenti nei monasteri ortodossi in Kosovo nel marzo 2004. Si erano sentite notizie vaghissime, l’unico che ne aveva parlato era Cacciari.
Io vengo da studi sui beni culturali della Chiesa, alla Gregoriana di Roma. Quindi con una delle mie amiche che è anche stata la mia insegnante di iconografia cristiana, Maria Giovanna Muzj, una sera parlavamo di questi incidenti e del fatto che fosse uno scandalo che delle distruzioni dei monasteri ortodossi non ne parlasse nessuno. Così io ho detto: “ Proviamo a fare un’iniziativa perché questa cosa fa rabbia”. Salva i Monasteri e quello che abbiamo fatto nasce un po’ dalla rabbia. Un sentimento che credo accomuni molti mortali sul fatto che non si può mai fare niente quando una cosa non ti va bene, cioè quando sei impotente, era una ribellione all’impotenza, una sensazione difficile da definire con termini corretti.
Comunque ho detto: ”Io provo a chiamare Massimo Cacciari e gli chiedo se gli va di fare, non sapevo bene cosa, un appello, sì, forse un appello, quindi la mattina dopo ho chiamato subito Massimo e mi ha detto che sì, era una buona idea l’appello.
Così, insieme a Marzio Lolli Ghetti, esperto di comunicazione web, abbiamo preparato il sito dell’iniziativa. Poi con Rosa D’Amico, storica dell’arte, don Sergio Mercanzin, presidente del Centro Russia Ecumenica, John Lindsay Opie, bizantinista, e tanti altri abbiamo lanciato l’appello.
Tutto si è attivato per solidarietà, per capire cosa succedesse a questi monasteri. Poi facevamo tutto per amicizia, cioè era un passa parola, molto semplice sia per le informazioni, i contatti con il Kosovo che per l’appello...
Così, abbiamo organizzato delle conferenze stampa invitando i monaci del monastero di Decani in Kosovo, tutto questo senza avere un’ombra di soldi, se non quelli che uno tira fuori di tasca sua. Il monastero di Decani è un gioiello pazzesco, una specie di cattedrale romanica nel mezzo del Kosovo. Quindi sono venuti i monaci a Roma, sono venuti molti studiosi dell’oriente cristiano, hanno partecipato anche moltissimi religiosi cattolici e tanta gente “ comune “. Abbiamo fatto la prima conferenza stampa a Montecitorio, perché c’era stata anche un’interrogazione parlamentare dei Verdi sugli incidenti. Abbiamo avuto risultati modesti, cioè tu inviti questo mondo e quell’altro dei media e arrivano tre gatti di giornalisti, questa è la verità.

OinO - Non era più attuale come problema?

EV – Sostanzialmente il problema del Kosovo non era più una priorità, non c’erano morti tutti i momenti, gli incidenti avevano procurato una decina, una ventina di morti, troppo poco per risaltare. Poi che vadano distrutte delle chiese o dei monasteri d’importanza artistica incredibile, non è molto importante, fece molto più effetto che i Talebani avessero buttato giù i Buddha
Salva i monasteri è cominciata così, di quelli che hanno risposto all’appello di “Salva i Monasteri” molti non li conosco se non per mail. Poi abbiamo fatto altre conferenze stampa al comune di Venezia, etc.
Sicuramente i monaci, questi di Decani in particolare, sono stati molto bravi perché sono quelli che si sono occupati del sito web della diocesi di Raska e Prizren, che quindi era una delle zone del Kosovo più in pericolo. Prizren è stata la città più colpita, una città medievale in cui c’è il famoso santuario della Vergine di Ljeviska..
Nel giro di un mese dalla conferenza stampa di Roma, ho capito che c’era la possibilità di andare a fare un filmato, tutto sempre a proprie spese. Tutto ha funzionato un po’ miracolosamente, detto sinceramente, per buona volontà, per amicizia. Insomma siamo riusciti ad andare in Kosovo con un carissimo amico di Milano, Dario Caratti, che è uno dei migliori operatori che io conosca. Giravamo scortati dalla Kfor italiana, da cui siamo stati effettivamente aiutati, perché andare in giro con una telecamera non era proprio facilissimo, (perché) andavamo in zone che oramai sono solo di maggioranza albanese, su obbiettivi delicati, cioè cose che erano state distrutte mezz’ora prima dagli albanesi. La scorta si è rivelata molto utile, immagino che da soli poteva essere molto più rischioso.
A quel punto, però, una che dall’Italia aveva fatto tutto questo gran can can pensando alla questione artistica culturale, cioè a un patrimonio a rischio ecc. ecc., una volta in Kosovo ho avuto un quadro completo. I monaci ortodossi erano stati sempre molto attenti a non sottolineare troppo la questione degli albanesi, cioè tendevano a parlare di più del problema della salvaguardia dei monumenti. In seguito, mi sono ricordata che quando se ne parlava dovevo capire che evidentemente se c’era un problema di questo genere, ci doveva essere un problema molto più grave di altro genere.
Voglio dire che quando sono andata lì, mi sono resa conto che in realtà c’erano pochissimi Serbi rimasti in Kosovo, visto che durante la guerra ci sono stati 250.000 sfollati serbi dal Kosovo in Serbia. Per la maggior parte i rientri dei serbi in Kosovo, che tra l’altro dovevano avvenire in quel periodo di incidenti a marzo 2004, sono stati bloccati. Insomma, ho visto i serbi rimasti vivere nelle enclave. Ho visto i serbi che non sono padroni di uscire o lavorare fuori dell’enclave, li ho visti avere una vita limitatissima a livello di diritti umani e civili.
Sono semireclusi. Il paese è in mano agli albanesi e alle forze militari, questa è un po’ la sostanza. Questa è la situazione che io ho visto e che mi ha molto colpita perché io, stupida Italiana, ignara, non immaginavo fosse così.
Nessuno aveva detto questa cosa qui. E questo era anche il motivo per cui la grande maggioranza della stampa e delle televisioni se ne fregava assolutamente del Kosovo, cioè il Kosovo è stato un delirio in cui il risultato dell’intervento è stato esattamente il contrario di quanto proposto. Una pulizia etnica al contrario. C’è stato un intervento su cui erano tutti d’accordo, non si è mai vista una tale grande convinzione comune per andare a buttare le bombe contro i Serbi... In realtà, tra l’altro, i Serbi come li ho conosciuti io in seguito, sono un popolo molto interessante, molto evoluto e assolutamente simile al resto d’Europa, quindi un popolo europeo.
La loro tradizione in Kosovo è una cosa talmente seria, che, comunque, mettere le mani in questa faccenda in una maniera così pesante è insensato I serbi erano lì da mille anni, è la culla della loro fede, hanno combattuto per il Kosovo contro gli Ottomani, hanno difeso questa terra per centinaia di anni.
Questo è stato per me uno shock culturale.
Toccare con mano la finzione occidentale, vedere i risultati di un’Europa che attacca se stessa.

OinO - Certamente gli effetti vengono prodotti dalle cause a monte, ed è difficile per noi, politicamente, riuscire a far luce…

EV – Tanto più quando poi nel giro di un anno o due ti ritrovi in mezzo a un conflitto oriente-occidente così grave… insomma come dire, due mondi che si contrappongono, dove tu un minuto prima ai dato in mano questa terra a una etnia albanese musulmana.
Una terra che aveva delle connotazioni cristiane. Un luogo in cui, fra l’altro, il problema dell’identità, la questione per cui l’Albanese attacca la Chiesa cristiana ortodossa, non è forse solo o semplicemente una questione religiosa, perché non siamo tanto sicuri che sia così, ma significa la componente invece culturale, l’identità. Cioè quel monaco lì è uno degli ultimi Serbi rimasti lì. Perché comunque per un albanese Serbia e Chiesa ortodossa sono uguali. Serbo _ uguale Chiesa ortodossa. Comunque quel serbo lì è l’ultimo rimasto e quindi la sua identità è quella di un Serbo, in più e in quanto ortodosso, e tutto quello che fa parte di quell’immagine lì va annientato.

OinO - L’intolleranza considera ciò che non assomiglia alla propria idea di mondo come pericoloso, e quindi va annientato, l’arte potremmo definirla l’identità differente dell’altro, in quanto espressione della sua cultura e civiltà, per cui sembrerebbe, per certi versi, un bersaglio estremamente significativo.
Quando le opere sono distrutte con violenza premeditata, la violenza è sempre diretta alla storia di un luogo, che è storia di rapporti, scambi, momenti di comunicazione, ma anche di odio e di separazione, quindi non sull’opera in sé ma su ciò che rappresenta, sull’opera intesa come simbolo di civiltà, cultura e storia dei popoli di un luogo. L’elemento simbolico quindi, sembra il vero bersaglio, poiché l’immagine che se ne vuole leggere ha una sua filiazione con la storia in genere. Le opere sono esposte a questo rischio sia che appartengano al mondo occidentale come l’espressione più alta della sua coscienza laica, sia che appartengano a culture fortemente religiose e integraliste che non riconoscono altro da sé. Secondo questo modo di ragionare, noi occidentali, vogliamo conservare l’opera nella sua purezza preservandola dalla contaminazione del mondo, reputando le distruzioni di opere come incidenti o effetti collaterali, anche se effettivamente potremmo tracciare una storia delle distruzioni parallela alla storia delle creazioni d’arte. Possiamo ancora considerare l’opera d’arte come immune da tutto questo?

EV – Certo un’opera per quanto abbia una sua vita autonoma, ed è giusto pensarla come tale, nasce e vive in un posto e fa parte di un tessuto. Io mi meraviglio quando vado in un posto in area di crisi pensando ai monumenti, al patrimonio artistico e inevitabilmente mi ritrovo a registrare un problema di patrimonio umano. Quindi, disgiungere l’opera dall’uomo che l’ha preservata è, secondo me, molto difficile. Bisognerebbe farlo in casi meno oggettivi, cioè “attenzione non si tocca l’arte”, però non si tocca neanche l’uomo che usa quell’arte.
Io però non capisco bene la domanda perché non riesco a disgiungere un’opera dall’uso dell’opera o dalla creazione dell’opera, cioè, è chiaro che io artista creo un’opera e l’opera ha una vita sua, di questo io sono assolutamente convinta, anche al di là dell’artista, su questo sono sicuramente d’accordo, però poi quell’opera è nata, si è organizzata in un contesto, soprattutto, nella creazione dell’arte sacra ancora di più. Cioè quell’opera, l’icona, l’architettura, diciamo l’icona, è comunque creata per avere un rapporto con il fedele. Questo l’artista lo tiene presente se è un cristiano come lo erano gli artisti del Medioevo. Anche nella concezione dell’icona questo è fondamentale, chiamiamola la autorivelazione dell’immagine sacra. Questa cosa qui della lettura e della fruizione è lo stesso motivo per cui è effettivamente molto antipatico entrare nelle chiese romane e vedere gente che guarda le opere senza dargli un minimo di quella interpretazione che riguardi a chi parlavano quelle immagini, all’utilizzo di quelle immagini. Ci sono molti casi in Italia del Crocifisso portato via da una chiesa per restaurarlo e finito nel museo. A me fa impressione. Non era meglio dove stava quel Crocifisso che visto in un museo? Allora dove si trova la scelta originaria della collocazione, il motivo, il senso e tutto quanto….poi è vero che l’opera in sé dà quella comunicazione anche se la metti in uno sgabuzzino, però forse è uno sbaglio di senso, di lettura, no? Di collocazione.

OinO - Questo è uno sbaglio che abbiamo sempre fatto, perché ormai grazie anche alla scienza, abbiamo capito che un fenomeno isolato non ci dice nulla del suo comportamento e che la rete di relazioni che stabilisce nel suo contesto è il vero soggetto nel quale anche lui prende senso per la conoscenza, mentre noi, per la lettura dell’opera, abbiamo sempre usato la vecchia metodologia dell’analisi, e quindi dobbiamo correggere il tiro.

EV - Quindi, se c’è una risposta, forse l’opera ha anche un senso rispetto al perché è stata fatta, da chi è stata fatta e in che tempo è stata fatta. Poi ne ha uno più in là di questo. Però evidentemente l’identità si lega all’aspetto pratico, effettivo dell’opera. Il suo significato, il suo livello artistico, la sua capacità espressiva, questo è al di là di tutto. Poi che in questi posti di crisi e dove ci sono contrapposizioni di tipo appunto politico, la questione religiosa, artistica, diventi strumento all’interno delle lotte è evidente, questo sì.

OinO - In base alla convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione delle proprietà culturali in caso di conflitto armato (paragrafo 2, preambolo alla convenzione dell’Aja del 1954) “I danni ai beni culturali di qualsiasi popolo costituiscono danni al patrimonio di tutta l’umanità, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura del mondo”.
Il patrimonio dell’umanità è di tutti e di nessuno, prevale la sensazione che sia di tutti o che sia di nessuno?

EV – Di nessuno, dà l’idea che tutti ne parlano, che c’è un grande giro internazionale di interesse sul patrimonio artistico ecc. ecc. ma poi praticamente i custodi di certe cose, che lo sono per motivi di tradizione, si ritrovano spesso soli e abbandonati a dover difendere il loro patrimonio. E dagli a cercare di capire perché non arrivano i soldi per restaurare, salvaguardare, catalogare, aiutare i locali a tenersi una cosa, a proteggerla. Evidentemente poi di nuovo le questioni politiche sono superiori alle buone intenzioni. Quindi è un giro che è un business, dove girano tanti soldi che però difficilmente arrivano a destinazione.

OinO - E’ strano, non trovi, teorizzare sull’arte in queste situazioni d’emergenza. Non capita di sentire interrogazioni sull’arte in situazioni di emergenza, in genere si parla tranquillamente davanti ad un’opera collocata in un ambiente artistico, una chiesa ecc. ma in una situazione come questa che ci stai raccontando, parlare d’arte vuol dire utilizzare criteri differenti e punti di vista nuovi, dato che il contesto e la situazione in cui si trova non è esterna alla fruizione dell’oggetto artistico stesso.
Volevamo chiederti, la gente del posto, come reagisce a tutto questo? Cioè la paura e il terrore portano ad una perdita dell’autostima? La sentono come una perdita?

EV – Intanto è uno sfregio. In Kosovo è una sofferenza per loro perché le distruzioni sono legate al monastero, al luogo di culto, quindi, alla loro anima.
Spesso è proprio uno sfregio, sfregiano gli occhi degli affreschi. Poi la violenza. Prima di arrivare a mettere le bombe in una chiesa e farla saltare si devono fare i conti con la gente che sta lì dentro e cerca di difendere questa cosa.
In Kosovo molti monasteri si sono salvati perché c’era qualcuno che rimaneva a difenderli, per cui anche le forze militari, di fronte a uno dentro che non voleva uscire a nessun costo, a volte li facevano uscire per forza, per salvarli.
Facciamo degli esempi anche più banali, questi sono monumenti storici, duemila anni di storia, mille anni di storia, trecento anni di storia, insomma fanno parte di quel che è la storia dell’umanità. Per chi ha sempre vissuto in certe aree, nei momenti difficilissimi il monumento costituiva un baluardo, una cosa da difendere ma che ti può anche proteggere.
Effettivamente, oggi, in Occidente, questi patrimoni sono più utili a una funzione chiamiamola museale, consumatrice del bene artistico, piuttosto che nella loro funzione originale che ha perso di valore per la maggioranza. Le funzioni originali sono desuete, non si vivono più, non sono più significative, quindi che la chiesa diventi museo sembra logico ma non mi piace Voglio dire che come cristiana non lo accetto. Finchè c’è un cristiano che celebra e prega in quella chiesa, quella è una chiesa. Poi può ospitare visitatori etc.

OinO - Ma questa è la presunzione che abbiamo noi occidentali, infatti noi abbiamo sempre lavorato in questo modo, decontestualizzando l’opera cosicché questa, in qualsiasi momento o punto in cui si trovi, facendo leva solo su di sé, fosse in grado di essere autosufficiente. Quanto stiamo dicendo denota invece diversamente che effettivamente il luogo di nascita, che può essere un luogo fisico ma può essere anche un’area culturale, che porta l’artista a creare in un certo modo, sia molto importante e forse ci fa capire come la nostra arte sia stata creata proprio per i musei, in forma di oggetti in quanto tali e non di situazioni.

EV – Si, l’arte moderna nasce diversamente.

OinO - Nell’ultimo viaggio che hai fatto hai girato un documentario, ce ne puoi parlare?

EV – Sono stata nella zona della piana di Ninive in Iraq, in cui ci sono ancora molti villaggi cristiani. La zona di Mosul quindi, tradizionalmente una delle aree più antiche del cristianesimo. E’ una presenza molto importante, un patrimonio culturale cristiano interessantissimo, in una zona di guerra. Insieme ad altri di “Salva i Monasteri” abbiamo promosso un progetto sull’eredità culturale cristiana in quella zona. C’era bisogno di un sopralluogo, non si poteva continuare a lavorare a un progetto senza conoscere il luogo. Così sono andata a fare un sopralluogo e ho cominciato a raccogliere materiali per approfondire gli elementi del progetto. E’ una area effettivamente poco conosciuta, è una tradizione cristiana molto originale, diversa rispetto a quella che può essere la tradizione Bizantina o quella Latina. Ho trovato delle cose fantastiche, straordinarie, sia nell’ arte e architettura, sia a livello di umanità. Vedi, torna la questione: chi c’è insieme a queste opere.

OinO - Queste due cose non si possono separare assolutamente, noi occidentali abbiamo operato una forzatura culturale?

EV - Questa è la cosa che facciamo da noi. Noi semplicemente abbiamo disgiunto l’arte dal significato religioso, di appartenenza, questo abbiamo fatto da noi.

OinO - Non c’è stata allora comprensione da parte nostra…

EV – La nostra è un’arte, appunto come si diceva, che si autorappresenta, se io sono un artista che crea l’arte che voglio, che non la creo per una sfera religiosa, è chiaro che non sono obbligata a dargli quel senso lì. Poi probabilmente la mia opera se è una buona opera d’arte ha sicuramente un senso religioso. Ma questo fatto di appartenenza o di identità dell’arte sacra è un problema di civiltà. La civiltà cristiana era una civiltà in cui quell’opera si collocava e si comunicava secondo una tradizione vera, partecipata. Così nella civiltà islamica quando arrivano cosa fanno? Fanno una moschea. Noi occidentali oggi quando arriviamo in un posto cosa costruiamo per sentirci a casa? Un supermercato?

OinO - Il rapporto di relazione che va costruito è un rapporto di accettazione e di conoscenza reciproca, per non arrivare a dividere il contesto culturale artistico dal contesto umano. Sei d’accordo?

EV - Quello che succede all’opera d’arte come all’essere umano è che si ritrova danneggiato proprio perché non deve stare lì, punto. Non si vuole che stia lì, poi però che sia il villaggio, il monumento religioso o l’essere umano è uguale, tutto insieme, non si fa differenza. La differenza invece sembra che noi ci teniamo a farla perché diciamo : “ragazzi ok, volete eliminare il villaggio? Però mi raccomando rispettate le opere”.
Io devo dire adesso, tornando all’Iraq, che hanno avuto dei gravi attacchi alle chiese in una zona di guerra diffusa Non so se era una cosa contro i cristiani così chiaramente definibile, era anche semplicemente il casino generale, perché quella è proprio guerra seria, per cui le varie correnti e la criminalità si mischiano.
I cristiani hanno vissuto insieme ai musulmani dall’anno 633 in poi, con gravi problemi a seconda dei periodi, cioè a seconda di uno sceicco o di un altro potevano avere delle difficoltà. Ma sono abituati alla convivenza.
E’ un bell’esempio quello dell’Iraq, in cui i cristiani in minoranza sono rispettati. Sono iracheni. Quindi non stiamo mettendo in discussione in Iraq il fatto che ci sia una persecuzione strettamente religiosa nei confronti dei cristiani. Stiamo dicendo che i cristiani si trovano veramente in gravissima difficoltà, come tutti gli iracheni, ed essendo una minoranza rischiano di sparire. Però se io devo pensare al centro di un villaggio cristiano nella piana di Ninive e dire cosa mi preoccupa di più, io sono preoccupata per uno di loro quanto per la loro chiesa. Cioè come faccio a essere più preoccupata della chiesa? E’ chiaro che fino a che c’è un cristiano c’è una chiesa. Ma quando mi togli uno dei due cominciano i guai. Prima di togliere la chiesa devi sicuramente aver tolto l’essere umano, che è comunque anche quello che utilizza quel bene.

OinO - Da questa nostra conversazione è uscito un elemento rafforzativo sulla riflessione che porta a vedere l’opera d’arte nella sua appartenenza ad un contesto ben preciso, e il contesto è formato da vari momenti e ambiti in connessione tra loro, se non si dà importanza alla struttura connettiva nessun ambito che sia civile, religioso, politico ecc..può esistere per la conoscenza?

EV – Certo io non posso capire l’arte islamica più di tanto, posso studiarla. Allora devo cercare di capire, di conoscere i rapporti fra l’uomo e il monumento L’arte moderna occidentale è una cosa diversa, ulteriore.

OinO - In effetti il nostro concetto di arte è un concetto occidentale, significativo per la nostra storia, difatti noi ci meravigliamo dei talebani nel leggere il loro stupore per il clamore che ha suscitato la perdita dei buddha di Bamyan, ma certamente loro li sentono in un altro modo non per questo meno importante.

EV – Si, poi io non sono una studiosa d’arte in senso stretto, non sono una storica dell’arte, sono una che fa una professione per cui sicuramente sono stata a contatto con problemi artistici e ne vivo. Ho visto molta arte moderna e non moderna. Sono molto legata a questioni di arte sacra, però io non mi sento propriamente una studiosa anche se studio molto le cose a cui mi interesso. Di solito affronto di più la cosa con la mentalità di un regista.

OinO - Non sarà che noi però reputiamo l’opera d’arte più importante della vita umana?

EV – Forse visto da lontano, non essendo lì nel casino, è più facile parlare dell’arte piuttosto che parlare del serbo e dell’albanese in conflitto. Se tu metti bocca sul conflitto dei popoli entri in un problema storico-politico puro e chi a ragione, chi non ha ragione, perché hanno fatto l’intervento o perché non l’hanno fatto.
Parlare del patrimonio artistico è un modo per fare un ragionamento trasversale. Su questo Cacciari e molti di “Salva i Monasteri” hanno sempre insistito ma anche per superare la questione che per l’attacco in Kosovo c'era un governo di sinistra.
La questione artistica va tutelata perché è come dire è una cosa che permette di ragionare in altri termini, e che in qualche modo ha anche una valenza che va al di là della politica. Poi però chi l’ha detto che va al di là della politica? Non è forse politica che dentro un monumento religioso ci sia un uomo, e intorno un villaggio, una comunità, che ci sia qualcuno che usa il monumento, qualcuno che lo ha salvaguardato per tutto il tempo, qualcuno che l’ha fatto secondo certi canoni? Quindi, come si fa a dire: “Va bene, non ci sono più gli uomini ma è rimasto il monumento religioso che apparteneva loro?”.


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